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LA BORIA E LA SBORRA


di CUMCONTROL
22.01.2013    |    21.381    |    7 7.6
"Lasciai che il calore mi scaldasse almeno il viso..."
Narrerò la cronaca di un bukkake, cui mi sottoposi per amore. Per amor di completezza riferirò ai miei lettori che si tratta di cronaca veritiera, consumata tra le alture dei colli Albani in un casolare vetusto ed intrigante. Si aggiunga che si narra lo stralcio di un mio più lungo diario, che narra la passione prepotente e l’amore più carezzevole che nutrii per il mio RikY, per il quale ebbi a compiere ogni mia forma di dipendenza. Non so dirvi se egli mi amò, ma io l’amai, e godetti nella luce solare della mia distruzione. Il dio dell’amore abita l’amante… e non l’amato. Mi accesi nella luce incontenibile di quel divino… Buona lettura amici…

(…) Giunsero i primi tre. Riky vestiva con una canotta bianca e jeans tagliati di quelli che indossava per i lavori di campagna. Era amabile con quel suo sorriso, i denti bianchi. Con la sua voce sicura e profonda ma conviviale si dispose a preparare per loro la bevanda da sorseggiare. Io restavo impalato vicino alla porta. Giunsero i suoi tre amici, ridenti e con un pacco regalo che posero sul tavolo. Riky non si voltò ma fece per loro un ceno di saluto. Era impegnato coi nuovi ospiti. Coi bicchieri uscì all’aperto, in mezzo ai tre amici e ai tre sconosciuti. Mi comandò di uscire. Mi disse “sistemati la giù”. Mi apprestai a collocarmi nell’angolo del giardino. Disse ai tre nuovi arrivati di incominciare pure. I tre attraversarono i ventri metri del giardino e si avvicinarono circospetti, sbottonarono le cerniere e sciolsero dalle mutande i loro nerbi robusti ma flosci. Agguantai con la sola bocca il più imbevuto, il più irrorato di sangue e semi carico di energia da sfrenare. Lo accettai in bocca, in un succhiare irresoluto, lasciando che il nerbo si acclimatasse nel concavo madido e caldo della mia bocca. Lo udii mugugnare di piacere primario. I due ai fianchi lo scrutarono con l’aria bramosa dell’ansia di immettere presto anche i loro falli nelle mie polpe orali. Si voltarono alle spalle, videro Riky sorseggiare e parlare di noi di fronte ai suoi amici, sotto il gazebo, poi si rivoltarono verso di me. La bocca stantuffava adagio e il tipo se ne stava li, impettito, a gambe divaricate, abbandonato a quel piacere che gli montava fin sulla testa. Fu la volta dei due, contemporaneamente buttati in gola. L’altro si voltava verso Riky, sorridente..e si sbottono la giubba, e ricompose appena su i pantaloni. I due fregavano gli scudisci carnosi sulla lingua estratta e con le dita mi deformavano le labbra.
Dalle scale del giardino vidi scendere altri quattro sconosciuti mentre dal pianoro sentivo l’arrivo di macchine ancora. Il giardino si popolò di undici di loro. Riky allora aveva imbastito il tavolino sotto il gazebo con il bricco di bevanda alcolica e bicchieri di cortesia, di vetro sottile, di quelli che dalla credenza venivano fuori nelle occasioni speciali, in quelle familiari o nelle feste comandate. Scambio di mani, pacche sulla spalla e Riky accompagna i nuovi arrivati verso di noi. Mi spintonarono. Liberarono dalle patte sferze rigonfie, nodose con le loro cappelle lustre. Io mi distolsi appena dai colpi pneumatici a fissare i nuovi arrivati ma Riky, il mio amore, l’uomo per il quale e per il cui amore sarei andato a morte, mi afferrò per i capelli e mi schiantò contro i due cazzoni. “Al lavoro, li devi far godere tutti, fino all’ultimo!”. “Succhia cazzo, succhia” mi ripeteva tra le labbra terse di acquolina. Allora entrarono altri falli, mi batterono le guance occupate nei colpi dei fottitori. Entrava ed usciva ogni genere di scudiscio cavernoso. Nei colpi violenti la mia posizione traslò sempre più in la, fin quasi contro il muro. Si appoggiano al muro con le mani i fottitori, portandosi in statica nel flagellarmi la gola a suon di cazzi. “Troia, sput” Riky mi sputa sulla faccia ed invita gli altri a farlo. “Cesso umano”mi fa uno che si apprestava a soffocarmi. Riky ed il tale si guardano con la parentela delle intenzioni che in taluni si instaura senza far uso della parola. Ha una barra di cazzo in mano e due cocomeri nello scroto. Ha cosce vigorose che intravvedo sotto il jeans dilavato. Ha un maglione blu scuro e spalle enormi. Un torace possente e un addome debordante.
Ero affaticato, la cavità orale fu piena di sborra. Coaguli di materia venuta da quei buzzi frementi e trasfusi in ogni mio recesso orale mi procurarono lo sforzo del vomito. Un diletto salino però mi pervase, a me estraneo fino ad allora, e si distendeva sul letto delle papille sulla lingua. Le cappelle affondavano in gola a tormentare le tonsille. Il muco risaliva alle narici e sbottava a fiotti dal naso la schiuma bianca tra i conati. Nello stato confusionale, naufragavo nell’assembramento di cazzi davanti alle mie labbra. Si davano il turno, talvolta cortesi quei cazzi, talvolta riottosi perché a ciascuno fosse dato l’ingresso in quella breccia lacerata della mia bocca nei tempi voluti. I più stronzi, eccitati dall’attesa sferzavano rabbiosamente nella mia bocca, incuranti delle mie lacrime di conato, dell’aria che mi mancava, del mio borbottare un attimo di riposo. Ero una testa da fottere alla festa. Null’altro. Inanimato. Ero lo scarico delle loro voglie. Ero la pezza umana degradata al mero uso del prossimo.
Di cazzi ne vedevo ovunque quando mi capitava di schiudere appena gli occhi. Tra le ciglia le cappelle boriose ruggivano in guarnigioni accampate in ogni angolo della mia visione, gocciolanti di precum, in fremente attesa di travasare la boria rabbiosa di litri si sperma. Spruzzi da lontano giungevano sulle spalle, sul petto, sui capelli. In un soffocamento che mi levava la vita, ogni energia. La mia barba, che tanto fomentava l’eccitazione sessuale di quel mio depravato amore nel vedere l’imbratto del liquido seminale altrui, si imbrodolava frattanto di immonda schiuma di saliva, fuoriuscita dalle mie frattaglie di ventre per effetto di quella organizzata perturbazione nella gola. Lo stronzo mi appigliava per la maglietta e mi strascicava nella casetta diroccata che Riky occupava come ricovero per gli attrezzi. Il rozzo serrò l’uscio e Riky, quel mio amore attorno al quale avevo costruito i miei ardenti disegni romantici, con gli altri vi rimase fuori, incredulo di tanta robusta maniera di fottere la mia gola. Lo stronzo voleva per se quella testa floscia da saccheggiare. Da fuori mi sentirono urlare, sentirono la tosse affogare nell’oblio del borboglio, udirono lo cigolio ritmico del legno della cassa panca cui la mia nuca fu mal posta. Udii da fuori il mio Riky ridere con gli altri, poi come impensierito – forse richiamato in un angolo della coscienza sua da un presunto amore ch’egli nutriva per me – iniziò a bussare. Insistette. Anche gli altri insistettero. Poi lo stronzo si decise a fargli entrare. Il rozzo lo vidi in controluce venirmi nuovamente in dosso. “Questa troietta lasciatela ancora a me”. Mi riacciuffò per le orecchie e prese a sbatacchiare con rabbia il mio capo contro il suo ventre. Riky vide lo stronzo di dorso che a gambe aperte, semi flesse come stesse per espellere le feci, con quelle sue natiche contratte sotto il maglione, calcava contro una cosa che doveva essere la mia testa.. Riky esclamo un “Madooo”, pianse quasi per l’eccitazione..roteava il viso con aria mista a grave incredulità ed un ghigno che travasò poi in sorriso. Si accostò a me, e gli altri si misero a semiciclo, a distanza minima di rispetto per quell’orco. Riky mise allora il piede dietro la mia testa, sulla cassa panca contro la mia nuca andava a sbattere ripetutamente, e per meglio assistere al mio supplizio. S’infoiò a constare il mucchio di sborra sul mio viso, lasciato dagli altri fottitori. Si eccitò nel vedermi grondante di salive di conato. Perse il controllo nell’assistere allo schianto della mia faccia contro il pube dell’uomo ove s’infilava la grave sferza di carne a bistrattare rabbiosamente la mia gargana. Mezzo litro di sborra mi trasfuse lo zotico e quel poco di sborra che andavo perdendo nel gocciolatoio del mio labbro, veniva riportato in Federico da Riky, che dietro di me allungava il braccio a raccogliere il filamento con le dita e riadagiarmelo nella bocca. Sentii il giubilo degli astanti, dietro di me la risata esaltata del mio Riky che chiese a Federico subito il telefonino. Balzo davanti a me, io lasciai fare.. ogni secondo per me era prezioso per recuperare un po’ di forze..e mi scattò le foto con il brigante al mio fianco, che nel mentre aveva ricomposto le braghe. Nel giubilo generale, altri cazzi vedevo comporsi in formazione, ed approfittai per riversare fuori l’impasto salmastro della sborra e feci col sollevarmi lentamente.. “che fai, verme, stai giù..” Riky mi afferra per una spalla e mi obbligò a stare per terra, con la schiena ricurva e la nuca contro la cassa. Non ebbi il coraggio di alzare gli occhi. La vista mi si annebbiava e vedevo la luce abbagliante della porta farsi talvolta meno accecante per l’assembramento di quegli uomini che mi pareva non volesse proprio cessare. Altri mi parve di vederne, di nuovi.
Da dentro quel rudere dimesso, crollante, la luce dell’entrata si fece più flebile. S’avvicinò un ragazzo, alto, dal viso smilzo e dal naso aguzzo. Indossava occhiali, uno slabbrato girocollo di ciniglia con un pastrano cadente di colore avana, le maniche erano bordate di sudicio scuro ed indossava un jeans molto chiaro, slavato, e con scarpe di finta pelle color nocciola. Dalla patta fuoriusciva il suo nibbio bianco, con una cappella acuminata e di un rosso vivo. I testicoli erano due grosse palle bianche ravvicinate con un’accennata peluria bionda. Timidamente infilò l’asta dritto in gola, senza capitolazione, con la crudeltà dei neofiti. Ebbe a fottermi e non ci mise molto a sborrare. Preferì spruzzarmi sulla barba. Poi fu la volta di due gemelli che insieme mi riempirono nuovamente la bocca. Riky gestiva il transito verso la mia bocca. Fece entrare un altro villano che mi venne sulla lingua e pulì il cazzo con la mia maglietta già fracida. Poi si levò e mentre un rozzo cinquantenne si apprestava a slittarmi in gola sfruttando il favore lubrificante dello sperma altrui, lo vidi pisciare nell’angolo di fianco all’entrata. Per non cadere nella noia Riky si affrettava a spingere quella mia testa ormai inerte da ore contro il cazzo del villano che venne a sborra profusamente. Riky levò dalla parete la catena ossidata che teneva un vecchio badile legato ad altri utensili da lavoro e l’annodò al collo. Mi rimorchiò festante fuori da quella rovina e all’aperto scherzò di essere in passerella con un cane. Ricvetti schiaffi e calci al culo. E ci avvicinammo davanti ad una sedia cui la un’amica, che da sempre mi odiava, stava a gambe accavallate e avvolta nel suo lungo paltò nero e lucido. “hahahahahahaha, che figura..” ridacchiava villanamente l’amica. “Dai no, non fatemelo guardare, no hahahahaha” e si voltava coprendosi il viso con una mano. Fui trascinato grondante di sperma contro casa, il gioco stava forse finendo, e io respiravo così forte e conati di vomito mi strapazzavano gli intestini. Il collo mi tirava quel mio grande amore, impugnando la catena e ridacchiando nel mezzo di gente dai cazzi grondanti. Fui condotto ai piedi della pergola, dove non cresceva l’erba, solo ghiaia e sterco di gatto. Qualcuno corse verso di me e uno di loro per primo infilò il membro in bocca, per l’ennesima volta. Ero avvinto, mi lasciavo fottere e nel mentre ricercavo col pensiero il letto che mi avrebbe accolto dopo la disfatta. Rifugiavo nel pensiero per resistere alle conate di vomito. La gola mi dava alle fiamme e quando mi riavevo nello stato di coscienza, sentivo le nerchie sfregarmi dentro.. non riaprii gli occhi. D’un tratto mi mancò l’aria e urtanti conati di vomito si fecero virulenti. Feci in tempo ad allontanare il fottitore di turno per rovesciare la schiuma e la sborra involontariamente ingerita. “hahahahahaha che schifo, Basta, me ne vado..” sentii in lontananza.. Era l’amica che se ne andava e salutava i fottitori. Vomitai l’anima ma questo non bastò a placare le voglie del mio Riky. Anzi lo eccitava ancora di più. “Avanti ragazzi” e i ragazzi non se lo fecero ripetere due volte. “No, davvero, vi prego..” dissi e feci coll’alzarmi. “Devi stare qui cazzo” e Riky mi sborsò uno sganassone che mi ripiombò a terra. Un calcio alla bocca dello stomaco mi tolse l’aria. Fu lanciato dal mio amore. Era chiaro, il godimento degli invitati andava rispettato prima del mio amor proprio. Non potevo fargli fare una cosi brutta figura. Mi legò la catene attorno al collo con due giri di vincolo alla pertica, così da non poterlo più muovere. Altri dodici mi vennero in faccia e sedici altri tracimarono e mi vennero in bocca, due di loro presero a sputarmi in bocca prima di ficcarvici il cazzo e sei ancora vollero fare bis. Tutti fecero di me un orinatoio umano. Persi quasi conoscenza. Il loro agitarsi intorno e dentro di me mi arrivava da lontano ormai. Mi rimbombavano nelle orecchie ogni sconcezza che sentivo a malapena pronunciare. Avevo da tempo gli occhi chiusi, sentivo appena il freddo bagnato del mio sudore sui capelli dietro la nuca, lo schianto di fiotti di sputo sulla mia maglietta madida, materia lattiginosa sulla faccia, puzzo di urina su di me. Quando aprii gli occhi per pochi attimi vidi dietro gli alberi il bruzzo del tramonto, al mio fianco, Riky allungava una gamba sulla staccionata e due uomini occludevano i suoi orifizi . Li richiusi e quel frastuono generale fu per me silenzio.
Mi risvegliai a suon di calci. “Dai pelandrone..” udii Riky sollecitarmi a muovermi. Era sera, sul pianoro di là le macchine accendevano i loro fari. Qualcuno faceva già manovra. Mi diedi conto di avere la catena sciolta. La maglia incartapecorita dalla sborra divenuta frattanto stucco, mi proteggeva dalla brezza delle colline. Vidi Riky a pochi passi da me. Sorrideva e salutava gli ultimi rimasti. Non risparmiarono i ringraziamenti. Lui ricambiò in saluti e con umiltà ricambio con un “grazie a voi” i loro grazie. Era bello il mio Riky quando sorrideva con quella sua cordialità che nel convivo perdeva ogni carattere rupestre.
Quando l’ultimo degli ospiti fu andato, sul prato non vi rimase che lui e Federico, che l’aiutò a liberare il tavolo del gazebo da bricchi, calici di vetro e bottiglie di birra vuote colme di mozziconi. Entravano ed uscivano dalla casa dal cui uscio fuoriusciva la luce calda della cucina. Federico rammentava l’eccitazione del pomeriggio, Riky divagava. Parlava, lui, delle bollette da pagare, dalla legna che andava tagliata, del prato da tosare, nell’andirivieni del riordino.
Io, nell’oscurità della sera, mi feci forza e mi sollevai da lì. La brezza raffreddava la pelle indurita dallo sperma rappreso da qualche ora. Mi feci forza e mi accostai alla pertica del graticcio della vite per udire quelle loro voci. Attendevo che Riky venisse da me, che mi confortasse da tanto supplizio. Mi sentti profondamente mortificato. Nel buio scorsi le ginocchia sbucciate ed i jeans strappati proprio a quell’altezza. Avevo camminato gattoni, percorso molti metri nella innaturale deambulazione della bestiola, ed ero stato trascinato a forza sulla ghiaia. Riky non veniva. Allora feci con l’avvicinarmi nei pressi del gazebo e vidi che i due si adoperavano a differenziare la raccolta dei rifiuti del giorno. Federico mi vide entrare, Riky di schiena riponeva nel sottolavello il detersivo della lavastoviglie. Passai di la, nella stanza accanto, nel buio fiammato del camino a legna. Lasciai che il calore mi scaldasse almeno il viso. Federico mi raggiunse, mi tenne le due mani e mi ringraziò del bel pomeriggio trascorso insieme. Se ne andò.
In casa solo lo schioccare delle faville e di là Riky. Pregavo che venisse da me, a darmi un bacio. Decisi di rimanere così, davanti al fuoco, inginocchiato a contemplare la brace rovente. Mi venne vicino, lo sentii sistemare le ultime cose. Lo sentii alle mie spalle, lo sentii inginocchiarsi dietro di me e portare le braccia attorno al collo. Mi sollevai. Anche lui si sollevò. Mi voltai e lui scoppiò in una franca risata. “Amore mio, sei tutto impiastricciato..” Mi liberò della maglietta. Andò di là a prenderne una delle sue e me la lanciò sul divano. Mi asciugò con uno scottex umido il viso arroventato dal fuoco della brace. Accartocciò la carta e me la piantò in bocca. Rise ancora. “Che cesso che sei. Ti amo perché sei un cesso umano”. “Dai vestiti, spegni la luce e vieni su a dormire” e si congedò così, senza un abbraccio, non una carezza. Lo vidi scomparire sulla scala.
In bagno mi lavai e misi il suo profumo. Entrai nel letto. Dormiva già. Lo feci in silenzio, e lo abbracciai nel suo riposo di schiena. Passai il braccio sotto il suo doppio guanciale e nel sonno mi afferrò dolcemente le dita, con la tenerezza di un bambino. L’amavo per il suo apparirmi così indifeso. Sarei andato a morte per lui. Avrei acconsentito alla mia macellazione per lui. Il mio era un amore imponderabile.

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